Perché gli hater fanno bene alle aziende
Chi si occupa di comunicazione e social sa chi sono gli hater, potremmo tradurre il termine inglese in “odiatori”. Sono in pratica persone che intervengono nelle discussioni che riguardano un brand, un prodotto o una persona e ne parlano male. In un periodo in cui si discute tanto di customer advocacy, ovvero quel passaparola …
Chi si occupa di comunicazione e social sa chi sono gli hater, potremmo tradurre il termine inglese in “odiatori”. Sono in pratica persone che intervengono nelle discussioni che riguardano un brand, un prodotto o una persona e ne parlano male. In un periodo in cui si discute tanto di customer advocacy, ovvero quel passaparola che trasforma i clienti in testimonial e li spinge a promuovere “spontaneamente” la bontà, l’affidabilità e la qualità di un marchio/prodotto, gli hater rappresentano un grosso problema. Insomma, quando sul profilo Facebook di un’azienda qualcuno comincia a sparlare, non fa mai piacere a nessuno. Ma siamo sicuri che questi interventi negativi siano davvero così pericolosi per la salute di un brand?
L’unità di misura più nota della brand advocacy è probabilmente il Net Promoter Score, elaborato da Frederick Reichheld. Secondo questo schema, esistono tre tipi di clienti:
- i promotori: sono quelli che raccomandano il brand;
- i passivi: sono quelli che tendono a essere neutrali;
- i detrattori: sono quelli che difficilmente consiglieranno il brand.
Uno schema superato
Secondo lo schema di Reicheld, il Net Promoter Score è rappresentato dalla percentuale di promotori sottratta alla percentuale di detrattori. In pratica è come se l’effetto dannoso del passaparola negativo riducesse i vantaggi del passaparola positivo.
Secondo lo schema di Reicheld, il Net Promoter Score è rappresentato dalla percentuale di promotori sottratta alla percentuale di detrattori.
Ma si tratta solo di una scuola di pensiero perché in realtà le cose stanno diversamente. Prendiamo per esempio un grande brand come McDonald’s: secondo i dati diffusi da YouGov BrandIndex, la company degli hamburger ha il 33% di ammiratori e il 29% di detrattori, una polarizzazione quasi equilibrata. Starbucks ha un profilo simile: 30% di ammiratori e 23% di detrattori. Questi due brand, tra i più importanti nel settore alimentare, avrebbero punteggi molto bassi se li calcolassimo con il Net Promoter Score, perché hanno troppi detrattori.
Senza un’advocacy positiva e negativa, le conversazioni sui brand sarebbero noiose e meno coinvolgenti. Philip Kotler
Osservando i dati da un altro punto di vista, racconta Philip Kotler “Il gruppo dei detrattori è un male necessario che spinge il gruppo degli appassionati ad attivarsi per difendere dalle critiche McDonald’s e Starbucks. Senza un’advocacy positiva e negativa, le conversazioni sui brand sarebbero noiose e meno coinvolgenti”.
Gli haters sono un male necessario, perché hanno la capacità di stimolare e “attivare” i fan dormienti.
Il succo del discorso è che gli haters sono un male necessario, perché hanno la capacità di stimolare e “attivare” i fan dormienti. Facciamo un esempio a caso: Apple. Se c’è una categoria di clienti fedeli, quelli della mela morsicata sono certamente in prima fila. Provate a parlare male degli iPhone o dei Mac in generale. Anche i fan della mela che di solito non partecipano alle conversazioni, si sentiranno subito in dovere di farsi difensori del brand. Insomma, il commento negativo ha attivato dei difensori spontanei.
Ogni brand che abbia caratteristiche spiccate e un Dna forte tenderà a essere impopolare in un certo segmento del mercato. Ma ciò a cui dovrebbero puntare questi brand è la forza vendita migliore che ci sia: un esercito di appassionati disposti a difenderli nel mondo digitale. Philip Kotler. Marketing 4.0: Dal tradizionale al digitale